a cura di Fulvio De Lucis
Continua nella sua esposizione, Fineschi, con una lettura ,diciamo, “classica” che non significa da polverosa da biblioteche, ricordando che :
“Marx, sostiene che il modo di produzione capitalistico ha un funzionamento che implica una dinamica, non ripete meccanicamente lo stesso processo identico a se stesso, ma dà una direzione, cioè delle tendenzialità di fondo che nel loro progredire modificano la stessa struttura dinamica del processo.
Nel suo svolgimento cambia di funzionamento, ha degli aggiustamenti strutturali man mano che progredisce.
Il modo di produzione capitalistico funziona essendo processo di valorizzazione del capitale, cioè l’investimento di denaro deve fruttare più denaro di quanto originariamente investito.
Da dove viene questo surplus? Dal plus lavoro, dallo sfruttamento dei lavoratori, e via dicendo.
Proprio per aumentare questo sfruttamento, il plusvalore, che si modifica sostanzialmente modo di lavorare e struttura. Diciamo che è “obbligatorio”.
E questa non è archeologia economica, quello che va a fare per aumentare la produttività è aumentare la parte del capitale costante, macchinari diciamo, cioè quello che non è capitale variabile ovvero la forza – lavoro.
Questo meccanismo di aumento del capitale costante, quindi l’aumento della produttività del lavoro, permette, l’aumento dello sfruttamento e quindi della produzione di plusvalore”.
Fineschi ribadisce che questa è una dinamica auto contraddittoria perché per realizzare un plusvalore, per aumentarlo, il modo di produzione capitalistico tende ad escludere il lavoro vivo dal processo di lavoro, attraverso l’automazione, l’incremento della produttività del lavoro e questa dinamica è di fondo costante, però va a cicli, ma di fondo, tende ad aumentare quella che si chiama composizione tecnica ed organica del capitale.
(Oggi interessante sarebbe anche analizzare le teorie del capitalismo immateriale in rapporto al capitale costante sopratutto con la rivoluzione informatica e il tele – lavoro che occulta lo sfruttamento in senso lato……. ).
Inevitabilmente ciò determina trasformazioni per cui, in processi particolarmente avanzati, la necessità di lavoro vivo si riduce sempre di più, perché le macchine riescono a fare prima e meglio e in quantità superiore tutta una serie di produzioni che anteriormente richiedevano un largo impiego di lavoratori; l’informatizzazione, all’intelligenza artificiale questo livello di sostituzione del lavoro vivo attraverso le macchine sta raggiungendo livelli impensabili, addirittura andando a sostituire il lavoro intellettuale.
Ma questo elimina lavoro vivo ma non lo sfruttamento, almeno se le categorie marxiane sono valide nella loro struttura e ci riportano al conflitto capitale – lavoro.
Ma oggi ?
In un modo di produzione che ha superato quelli passati in cui abbiamo vissuto e ci siamo formati, dicendo di essere comunisti e per un’ orizzonte economico differente?
Un po’ cinicamente, per dichiararsi comunisti è essenziale non accettare in toto questo modo di produzione, pur essendone interni, con tutte le sue contraddizioni che non risparmiamo nessuno?
Fineschi riporta alcuni esempi sulla trasformazione del lavoro vivo, ad esempio, studi di avvocati che per fare il lavoro di sintesi e raccolta di leggi su di un determinato argomento utilizzano un software che lo fa più rapidamente di un vero e proprio team di persone prima necessario.
Oppure livello giornalistico la raccolta di articoli su di un determinato soggetto, una specie di resumè del contenuto, adesso la fa un software.
Il processo di sostituzione non riguarda più il solo lavoro “materiale”, come si diceva una volta, ma sta investendo anche il lavoro più intellettualmente sofisticato.
Gli esempi potrebbero essere molti in un mercato del lavoro che ha la caratteristica comunque della frammentazione, della precarietà e della necessità di ricomposizione anche soggettiva e di ricostruzione del concetto di classe nel senso di estensività e non solamente economicistica.
Anche qui il capitalismo crepuscolare costringe a fare i conti con un marxismo che ha molto citato Marx, e questo crepuscolarismo ne ha evidenziato i limiti storici e teorici.
Interessante poi, evidenzia Fineschi, come la conseguenza di questo processo avviene un cambiamento strutturale nel modo di produzione capitalistico che riguarda l’esercito industriale di riserva.
Nella teoria del capitale di Marx è teorizzata la disoccupazione; quella dell’esercito industriale di riserva è una teoria della disoccupazione. Marx va a spiegare come una larga massa di lavoratori non troverà lavoro.
Questa tendenza è definita elastica, cioè va e viene, ha delle dinamiche di espulsione e riassorbimento.
Nel capitalismo crepuscolare, proprio a causa di questo incremento spaventoso della composizione tecnica e dell’automazione, tale dinamica dell’esercito industriale di riserva tende a irrigidirsi, a non essere più elastica; di conseguenza, il processo di riassorbimento o è lentissimo o addirittura assente.
Questo implica tassi di disoccupazione spaventosi; la flessibilità corrisponde a questa necessità.
Ad esempio lo stesso lavoro, vedi Germania, lo fanno tre persone, dividendo però, il salario per tre, si hanno tre occupati invece di uno, ma il salario sommato è lo stesso.
Nella logica del capitalismo, c’è una pletora di forza – lavoro. E questo è la precondizione di tutta una serie di dinamiche che appunto portano alla violenza come ultimo fattore.
In termini generali il modo di produzione capitalistico è un modo di produzione basato sulla violenza perché il suo fondamento, il plus lavoro, è una espropriazione del lavoro dei lavoratori; essa è dunque nel DNA del modo di produzione capitalistico.
Si tratta di capire come questa dimensione della violenza si estenda al di là di queste dinamiche di fondo fino ad andare a intaccare le stesse idee borghesi fondamentali, lo stesso concetto di persona e al nodo della violenza che nasce intrinsecamente in seno a queste dinamiche e come siano un portato necessario dello sviluppo di strutturazioni sociali complesse”.