di Francesca Astengo
È particolarmente complesso, per un utente sociale di generazione Y, realizzare un pensiero critico sulla propria piccola cittadina di provincia. È difficile soprattutto perchè l’attitudine di vita savonese ha caratteristiche formalmente oniriche, legate alle meravigliose madeleine di asili con le vetrofanie Disney (fatte a mano da amorevoli maestre) e a canzoni dei Pink Floyd o di Bob Dylan cantate a squarciagola alle elementari. Dopo, diciamo la verità, ce ne siamo un po’ andati tutti. Tutti abbiamo studiato fuori, siamo tutti evasi alla ricerca di una proposta culturale meno stereotipata, abbiamo ricercato stimolanti soirèe torinesi, milanesi o – alla peggio – genovesi. Chi è arrivato più lontano, lo ha fatto per non fare ritorno. Savona ci ha cresciuti, ma non formati. Solo oggi, solo per coloro che hanno scelto di tornare sotto la Torretta, la riflessione di una vita savonese si fa reale e tangibile. Negli ultimi mesi, a fronte di un’emergenza sanitaria mondiale, incontrollata e spaventosa, abbiamo riscoperto che oltre al tedio del vivere in provincia, possiamo coglierne esperienze positive. Grazie allo smart working, a tempi di vita più ragionevoli e ad un approccio alla città fondamentalmente umano, possiamo cogliere i vantaggi di un orizzonte limitato ma rassicurante. La Savona che vorrei, soprattutto, coopera. È la città solidale, antifascista, ribelle dei racconti dei miei nonni. È una famiglia sincera che può dare solo quel poco che ha, ma lo fa con la consapevolezza che l’appartenenza conti. La Savona del domani siamo noi, quelli tornati, quelli ostinati, quelli che credono che la grandezza risieda nei piccoli luoghi e nelle piccole cose. Savona resta se stessa, diffidate da chi ve la propone futuribile ma distonica. Savona è fedele, perché anche i nostri bambini possano farne parte, ma Savona deve crescere, perché anche loro scelgano di tornare.